Emilio Spadoni, gli anni di guerra, mai voluta, di un povero contadino romagnolo

Mio nonno si chiamava Emilio Spadoni, ed era un contadino, nato nei dintorni di Bagno di Romagna il 28 luglio 1911. Quelli nati in quell'anno furono particolarmente sfortunati e lo stato fascista riuscì a rovinargli la vita. Mio nonno andò militare di leva per 2 anni, dal 1931 al 1933, venne richiamato nel 1935 e fu mandato a fare la guerra di Etiopia. Tornò nel 1937 con una croce al valore e una scheggia nel petto. Nel 1940 lo mandarono in Albania e li rimase fino al 1943, quando, in seguito all'armistizio dell'8 settembre, fu fatto prigioniero dai tedeschi e inviato in un campo di concentramento, da dove venne liberato nel 1945. Tornò a casa fra mille peripezie in agosto del 1945 e pesava 28 Kg. In totale 9 anni persi, sprecati per la vanagloria di uno stato che prima credeva di creare un impero e poi ha scelto di allearsi con i nazisti. Oggi si tende a dare la colpa a Mussolini, ma io penso che non sia mai una persona sola che crea tanto danno, ci devono essere altri interessi, economici e di potere. Per questo mi riferisco allo stato, e lo scrivo con la 's' minuscola volutamente. Ogni volta che leggo il suo foglio matricolare non posso fare a meno di sentirmi anarchico, anche se solitamente sono tutt'altro che un rivoluzionario.
Nel 2015 sono andato in Etiopia per vedere com'è il paese dove lo avevano mandato contro la sua volontà.


viaggio in nave di 12 giorni dei soldati che andarno da Napoli a Massaua
Mio nonno, Emilio Spadoni, è stato imbarcato con il suo reggimento, 60mo fanteria Iglesias il 4 settembre 1935, a Napoli, destinato alle forze mobilitate in Eritrea. Sbarcato a Massaua, dopo giorni e giorni di navigazione (mi ricordo che parlava sempre di 12 giorni e 12 notti, a voler enfatizzare la durata), è stato mandato in guerra in Etiopia, ed è tornato in Italia il 16 gennaio 1937. Sua figlia, che sarebbe mia madre, è nata il 20 dicembre di quell'anno, per cui sono fortunato che gli Etiopi non lo abbiano catturato e non gli abbiano tagliato le palle, come pare usassero fare con gli invasori. Faccio fatica a immaginare lo stupore di un povero contadino di 24 anni portato via dalle sue montagne e mandato a combattere in altre montagne, non troppo diverse dalle sue, contro gente che non immaginava neanche. Mia madre racconta che diceva: "io non ho mai sparato a nessuno, perché avrei dovuto sparare a qualcuno che non mi ha fatto niente?".


Le operazioni militari in Etiopia iniziarono il 3 ottobre 1935 e terminarono il 5 maggio 1936, con la presa di Addis Abeba. Per i dettagli rimando alla voce guerra d'Etiopia su Wikipedia e a "Gli Italiani in Africa Orientale" di Angelo del Boca. Non so in che parte di quegli eventi e in che zone si trovasse mio nonno, ma certamente nessuna era piacevole. Gli italiani hanno usato i gas e hanno seminato il terrore, come invasori, e gli etiopi, giustamente, difendevano la loro patria. L'avanzata da Massaua ad Addis Abeba si è svolta all'incirca lungo il percorso indicato in cartina. Mio nonno rimase in Etiopia altri 8 mesi, dopo la presa di Addis Abeba, e, avendo visto con i miei occhi quanto siano belle le ragazze, spero che abbia trovato modo di divertire la sua gioventù, come è giusto.



Ricordo che quando ero piccolo sentivo parlare di questa parte della sua vita, ma non avevo mai dato troppa importanza alla cosa. Tutto è cambiato quando mia nonna ha richiesto il foglio matricolare per la pensione e ho letto, nel crudo linguaggio burocratico, le peripezie di questo pover'uomo. Da allora ogni volta che ci penso non posso fare a meno di arrabbiarmi e quando sento qualche nostalgico, che magari non ha mai affrontato alcun sacrificio, parlare in modo eroico di queste vicende, vorrei fargli rivivere quello che ha passato mio nonno. Nove anni di vita persi, come una condanna di nove anni senza aver commesso alcun reato!



Dopo 17 mesi passati in Africa, il 16 gennaio tornò a Cagliari e poi in seguito a casa sulle montagne romagnole, con una scheggia di bomba vicino al cuore alcune medaglie e un diploma con il timbro della firma di Benito Mussolini.



Quelli della classe del 1911 sono stati molto sfortunati. Mio nonno venne mandato a fare il servizio di leva a vent'anni, dal 1931 al 1933. Nato in un podere sopra Bagno di Romagna, non sapeva né leggere né scrivere.



Dopo essere stato mandato in Etiopia, da dove tornò nel 1937, venne di nuovo richiamato alle armi il 6 dicembre del 1940, nel 12mo reggimento fanteria "Cesena" e in seguito imbarcato il 13 marzo 1941 a Bari, con destinazione Valona, in Albania. In questa sezione del foglio matricolare si capisce meglio che dai libri di scuola quello che è successo ai nostri soldati dopo l'8 settembre 1943. In pratica, visto che avevamo cambiato fronte, si dice che "cessa di trovarsi in territorio dichiarato zona di operazioni", perché non eravamo più in guerra con l'Albania e la Grecia. E il 12 settembre: "prigioniero di guerra dei tedeschi". Immagino questi soldati lasciati allo sbando che dovettero scegliere se continuare a combattere insieme ai tedeschi, loro ex-alleati, o se dovevano invece finire in prigionia. Mio nonno certo non era un guerrafondaio, anzi, conoscendolo, era la persona più mite al mondo, e preferì finire prigioniero. Il foglio matricolare riporta il suo rientro dalla prigionia il 12 agosto 1945. La Germania si è arresa l'8 maggio, per cui ci ha messo tre mesi ad arrivare a casa in modo fortunoso. Lo davano per morto e nessuno se lo aspettava quando è tornato a piedi e pesava 28 chili. Lo hanno alimentato con brodo e un pò alla volta si è ripreso, ma per parecchio tempo non potè lavorare. Mi dice mia madre che i fratelli si lamentavano del fatto che non lavorasse e che dovette intervenire il proprietario dei terreni (erano mezzadri) a mettere pace e spiegare che non era certo per colpa sua se la sua vita era andata in quel modo.



Quando ero un bambino di 4 e 5 anni i miei genitori si erano trasferiti a Forlì, mio padre faceva il muratore e mia madre in estate lavorava nei magazzini della frutta, per cui mi mandavano a Premilcuore dai miei nonni. I ricordi che ho di mio nonno sono quelli di lui che dopo pranzo si stendeva a dormire in terra, su di una giacca vecchia, sul porticato davanti alla porta di casa. Ricordo quando arava la terra con un bue e un aratro in legno, magari simile a quelli usati duemila anni fa. Ricordo quando mi insegnava a pascolare le mucche e poi mi mandava da solo a portarle al pascolo, come ho visto fare ai bambini in Etiopia. Ricordo una persona buona che non si arrabbiava mai, ricordo quando andavamo a piedi in paese, la domenica e lui beveva una birretta. Poi l'ho visto meno, e i miei ricordi diventano quelli di un vecchio che faceva fatica a piegare la gamba per salire in auto, che faceva fatica a camminare, ma aveva solo 65 anni...Il medico diceva che il suo corpo era completamente consumato. Consumato da una vita sfortunata, da uno stato balordo che ha trattato tanti suoi cittadini come carne da macello. Per questo, ancora oggi, anche se seguo le leggi, sento comunque dentro di me una diffidenza verso il sistema. In questi giorni in cui siamo chiusi in casa per il Corona Virus, ho trovato il tempo di scrivere queste poche righe, come mi ero ripromesso di fare da tanto tempo. Questi giorni, con le proibizioni spesso insensate, come quella di correre a piedi, di andare a passeggiare in spiaggia o di comprare giocattoli per bambini (mentre si possono comprare quelli per gli animali) ho sentito di nuovo questa stessa diffidenza crescere in me. Purtroppo, anche per il progressivo deterioramento della classe politica, sento di non potermi fidare dello stato.
Massimo Portolani, 1 maggio 2020.